28 Febbraio 2022
Alzi la mano chi ha ricevuto in quest’ultimo periodo bollette con dei costi quadruplicati.
Vi vediamo, siete (siamo) in tanti: privati, aziende, attività economiche e commerciali, poli produttivi, ecc. nessuno si sta salvando. Ma a cosa è dovuta quest’impennata dell’energia? È davvero colpa della transizione ecologica, delle tensioni politiche tra UE e Russia, della stantia burocrazia italiana? Oppure sono ancora gli effetti del lockdown?
Non è semplice rispondere a queste domande anche perché, com’è facilmente immaginabile, si tratta di una concatenazione di eventi che si sono riflettuti sui nostri portafogli.
Il prezzo dell’energia elettrica è passato da 60 €/Mwh di marzo 2021 ai 288 €/Mwh di dicembre 2021 mentre il gas naturale ha avuto un incremento del 700 % rispetto al 2019.
Secondo le stime di Confindustria, nel 2022 il costo dell’energia per le imprese sarà pari a 37 miliardi di euro contro i 20 del 2020 e gli 8 del 2018. Se dovesse verificarsi questa ipotesi ci saranno gravi ripercussioni anche sul PIL che crescerà solo dello 0,8% – quindi molto più basso rispetto alle previsioni – mettendo a rischio circa 500 mila posti di lavoro.
Questi sono solo alcuni dati utili a comprendere la gravità della situazione.
Cerchiamo di capire perché siamo arrivati a questo punto.
fonte Dataroom
La prima sirena d’allarme è suonata al termine del lockdown dovuto al Covid-19. La ripresa congiunta delle attività economiche e quindi l’elevata richiesta di materie prime ha letteralmente messo in crisi i fornitori. La domanda è stata ampiamente superiore all’offerta generando un’impennata vertiginosi dei prezzi e, per molte materie, l’approvvigionamento è stato pressoché impossibile – il settore dell’automotive ne è l’esempio lampante. L’argomento è molto complesso, consigliamo la lettura di questo nostro articolo se vi interessano le problematiche legate all’approvvigionamento delle materie prime.
Ovviamente questa ripresa euforica post lockdown delle aziende ha avuto ripercussioni anche sui rifornimenti energetici per i quali c’è stata una richiesta di gas naturale e di elettricità molto più elevata rispetto al previsto.
Da maggio dello scorso anno, la Russia ha ridotto la fornitura di gas naturale verso l’Europa del 25%, fino ad arrivare all’attuale -44%. Perché? Cercheremo in questo articolo di rendere il tema (molto delicato e spinoso) più semplice possibile, rimanendo sempre nell’ambito dell’approvvigionamento energetico.
fonte ISPI
Un’altra causa determinate è l’aumento dei prezzi dei permessi per emettere anidride carbonica (CO2) scambiati sull’Emission trading system (ETS) europeo. Di cosa si tratta? È un mercato simile a una borsa, su cui aziende inquinanti si scambiano i permessi di inquinare. In base a questo sistema, le industrie europee più inquinanti, dalle centrali energetiche alle acciaierie, hanno un tetto annuo di emissioni di Co2 da rispettare. Se inquinano di più di quel tetto, sono costrette ad acquistare quote di emissioni da un apposito mercato. Qualora inquinassero meno, le quote non utilizzate possono essere rivendute sullo stesso mercato.
L’ETS è stato introdotto nel 2005 per limitare l’emissione di gas serra da parte delle imprese europee, e fa in modo che coloro che inquinano di più trasferiscano denaro a coloro che inquinano di meno, incentivando la transizione verso fonti rinnovabili.
Nel primo semestre del 2021, il prezzo del permesso di emettere una tonnellata di CO2 sull’ETS è passato da 33,7 a 56 euro fino ad arrivare ai 79, facendo aumentare i costi delle società che producono energia, le quali li hanno scaricati sui consumatori. E siccome il numero di permessi viene ridotto ogni anno, questo prezzo tenderà a crescere in futuro.
Ad aggravare la situazione c’è stata una minor produzione di energia eolica nel Mare del Nord perché il riscaldamento globale ha portato meno venti del solito, e nel terzo trimestre 2021 si è sfruttato solo il 14% della capacità eolica installata. Anche la Germania, che è il maggiore produttore europeo, ha registrato un calo annuo del 16%. Di conseguenza le centrali termoelettriche hanno dovuto aumentare il consumo di gas ancor prima che arrivasse l’inverno. Attualmente la legge non consente di accumulare energia in eccesso derivante da fonti rinnovabili, questo significa che, ad esempio per l’eolico, nei giorni in cui c’è più vento quindi la produzione di energia è maggiore della domanda, la si deve letteralmente “buttare”.
Le imprese chiudono perché è troppo costoso produrre. Le più esposte sono quelle appartenenti al settore energivero: acciaierie, ferriere, fonderie, vetrerie, ceramica, cemento, legno e carta.
L’Italia è più penalizzata perché il 42% del consumo totale di energia è prodotto con il gas, contro il 28% del Regno Unito, il 26% della Germania (che usa molto carbone), il 23% della Spagna (che si affida di più al petrolio) e il 17% della Francia (che conta sul nucleare). Siamo indietro anche sulle rinnovabili (sole e vento), che da noi rappresentano l’11% del consumo energetico totale: meglio dell’8% in Francia, ma peggio del 18% della Germania 18%, del 17% del Regno Unito e del 15% della Spagna.
Riportiamo qualche esempio – citati da Milena Gabanelli nella sua puntuale inchiesta “Dataroom” – di aziende che hanno dovuto prendere decisioni drastiche per cercare di contenere l’aumento dei costi.
fonte Dataroom
Da diversi giorni anche il prezzo di benzina e gasolio sta aumentando vertiginosamente. Il fenomeno è una diretta conseguenza dell’aumento del petrolio – benzina e gasolio sono, infatti, il risultato del processo di raffinazione del greggio.
Il tutto è dovuto alle tensioni politiche tra Russia e Ucraina? Anche in questo caso la situazione non è così semplice. Gli scontri stanno ovviamente influenzando in modo deciso il prezzo dell’“oro nero” ma, a differenza del gas, l’estrazione di petrolio è maggiormente diversificata a livello internazionale. Come affermato da Claudio Spinaci, presidente UNEM – Unione Energie per la Mobilità – in tutto il mondo ci sono scorte strategiche di petrolio molto elevate che possono essere usate in caso di necessità anche per far fronte a riduzioni dell’offerta e limitare la speculazione internazionale.
Il prezzo del carburante è passato da 1,549 €/lt del 07/03/21 ai 1,953 €/lt del 07/03/22 per la benzina; mentre per il gasolio parliamo degli iniziali 1,421 €/lt fino ad arrivare 1,829 €/lt. E questi sono solo gli utlimi dati forniti dal Ministero – aggiornati al 07/03 – mentre scriviamo sia benzina che gasolio hanno abbondantemente superato i 2,2 €/lt.
fonte Ministero della Transizione Ecologica
La causa principale è l’andamento del prezzo del Brent, il petrolio estratto nel Mare del Nord che serve da riferimento per la maggior parte dei prezzi mondiali. Nelle ultime settimane e, in particolar modo dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ha toccato i 140 dollari al barile. Tale impennata è dovuta a una precisa decisione presa dall’Opec+, l’alleanza di 23 paesi produttori di petrolio guidata dall’Arabia Saudita e che include anche la Russia che, nonostante la richiesta degli USA di aumentare le estrazioni per calmierare i prezzi, ha confermato di voler mantenere invariati i piani di incremento della produzione, che prevedono di arrivare a 400mila barili di petrolio al giorno.
Per contrastare questa scelta, l’AIE – l’agenzia internazionale per l’energia, di cui fanno parte 31 paesi – ha deciso di collocare ulteriori 60 milioni di barili di petrolio delle loro riserve di emergenza per mandare un chiaro messaggio ai mercati e assicurare che non ci saranno carenze di approvvigionamento di petrolio nonostante gli scontri tra Russia e Ucraina.
Almeno per il momento, guardando i prezzi della benzina, questa operazione non sembra aver prodotto gli effetti sperati.
Un altro fattore da tenere in considerazione è l’attuale cambio tra euro e dollaro, attualmente è sceso fino a quota 1,09 il che significa che 1 euro equivale a 1,09 dollari, nettamente inferiore rispetto agli ultimi periodi. Questo influisce direttamente sul prezzo della benzina perché con un euro forte il costo di un barile di petrolio è decisamente inferiore.
A tutto ciò si sommano le note motivazioni: la tassazione statale. Esatto, stiamo parlando delle famigerate accise e dell’IVA.
Senza entrare in dettagli noti a tutti – la quantomeno scandalosa presenza delle accise per la diga del Vjont del ’63, dell’Irpinia dell’’80, ecc. – basti sapere che in Italia la tassazione (accise + IVA) costituisce il 55,3% del prezzo finale della benzina e il 51,8% del prezzo del gasolio.
fonte Ministero della Transizione Ecologica
Queste sono le motivazioni che stanno portando il prezzo della benzina a valori stellari. Rispetto al gas naturale, però, la situazione è meno preoccupante in quanto, come anticipato prima, sono numerose le fonti petrolifere in tutto il mondo.
Se l’Italia dovesse bloccare i rifornimenti petroliferi dalla Russia non faticherebbe a trovare alternative. Attualmente nel nostro Paese, l’approvvigionamento di petrolio dalla Russia rappresenta solo il 10% a differenza di quello del gas naturale che arriva al 43%. Come sostenuto sempre dal Presidente Spinaci “La nostra capacità di raffinazione è diversificata: nel 2021 ci siamo riforniti da 22 Paesi, con 72 diversi tipi di greggio. Come già accaduto con le crisi di Libia e Venezuela, non sarebbe uno choc sostituire la Russia tra i nostri fornitori”.
La Russia è il primo fornitore di gas naturale dell’Unione Europea e per quanto si parli di energia rinnovabile, attualmente tutti i Paesi utilizzano ancora le fonti fossili per l’approvvigionamento energetico.
Secondo Eurostat la Russia fornisce il 38% del gas utilizzato in Europa.
La progressiva diminuzione dell’utilizzo del carbone (una delle materie più inquinanti) è ovviamente coinciso con una maggiore richiesta di gas naturale (meno inquinante e quindi considerato come un ponte necessario per il passaggio alle energie rinnovabili). Questo ha portato l’Italia ad essere sempre più dipendente dai Paesi fornitori, come appunto la Russia. Lo stesso discorso vale pressoché per tutta la UE, con le dovuto differenze: ad esempio la Francia, grazie alle sue centrali nucleari, riesce ad ammortizzare maggiormente il rincaro russo; la Germania può contare su un sistema strutturato di centrali a carbone che, a differenza dell’Italia, negl’anni sono state ridimensionate per utilizzo ma non chiuse.
In questo “mercato del gas” è stato costruito, ma non è ancora in funzione (mancano alcune autorizzazioni) l’ormai celebre gasdotto “Nord Stream 2”.
Di cosa si tratta? E perché gioca un ruolo fondamentale in questa partita?
Il Nord Stream 2 passa dal Mar Baltico e arriva direttamente in Germania finanziato da uno sforzo congiunto tra Russia e Germania; è il secondo con questo nome in quanto un suo gemello è attualmente in funzione, ed è di gran lunga il gasdotto più utilizzato per trasportare il gas in Europa. La seconda strada più battuta è proprio quella che passa dall’Ucraina.
fonte SkyTg24
Ora, senza entrare in questioni politiche per le quali vi consigliamo di consultare altre fonti, quale strategia ha intrapreso la Russia?
Ogni investitore che si rispetti vuole vedere i frutti del proprio investimento, pertanto la Russia già dal 2021 ha spinto affinché si aprisse il Nord Stream 2. In che modo? Ha ridotto costantemente le forniture provenienti dagli altri gasdotti, fino ad arrivare a un -44% di gennaio 2022. Ma per quale motivo il nuovo gasdotto è stato (ed è tutt’ora) così contestato? La paura della comunità internazionale è quella di rendere l’Ucraina troppo “esposta” ai voleri russi: se appunto la Russia non ha più bisogno di passare dall’Ucraina per servire il suo miglior cliente, chi garantisce che non diventi troppo ricattabile (sia energeticamente che, soprattutto, politicamente)?
Per quanto l’iniziale ridimensionamento delle forniture russe fosse dapprima di natura economica, è innegabile che, da inizio 2022, la situazione abbia preso una connotazione certamente politica.
fonte SkyTg24
Nell’autunno 2021, quando il Ministro Cingolani disse che sarebbe arrivato un sostanzioso aumento delle bollette, parte dell’opinione pubblica ha iniziato a vociferare che la colpa fosse della transizione ecologica, come se si trattasse di un’entità reale dai contorni ben definiti e non di un passaggio, complesso e articolato, da una società legata alle fonti fossili ad una che utilizza fonti rinnovabili, con tutti i benefici che ciò comporterebbe.
I motivi del caro-bollette sono quelli esposti sopra ed, escludendo il sistema ETS, centrano poco con la transizione ecologica se non per il fatto di non aver ancora cominciato ad investire davvero nell’energia rinnovabile.
Entro il 2030 dobbiamo realizzare 70 GW da fonti rinnovabili, oggi ne facciamo meno di 1 GW. Ma le richieste di allacciamento superano i 146 GW.
E allora perché siamo così indietro? Nel 2020 sono state realizzate l’1,3% delle richieste partite nel 2014.
Esatto, avete letto bene: per l’approvazione di un parco eolico o fotovoltaico servono 6/7 anni, suddivisi in 5 passaggi per l’autorizzazione e 6 per l’allacciamento.
Penserete quindi che sia solo una questione di tempo, e invece non è così. Le Regioni possono bloccare i progetti non graditi alle comunità locali e le sovraintendenze quelli che disturbano il paesaggio.
Solo in Puglia 396 impianti piccoli e grandi sono fermi da 8 anni. Nel Lazio 126, per 2,2 miliardi di investimenti tra Viterbo e Latina, sono stati fermati dal Ministero della Cultura.
fonte Dataroom
Inoltre c’è il problema dell’accumulo di energia da fonti rinnovabili. Come dicevamo qualche riga più su, la legge non prevede la possibilità di immagazzinare energia nei periodi in cui se ne produce più di quella che serve.
Tra Puglia, Sardegna e Sicilia è stata fatta richiesta per 17 GW di pale eoliche in mare, ma Terna (Società Italiana che gestisce le reti di trasmissione dell'energia elettrica) non investe se prima non ha la sicurezza che gli impianti si faranno, ma le comunità locali non li vogliono.
Altro settore in cui il nostro Paese arranca è quello della valorizzazione dei rifiuti non più riciclabili. Come abbiamo spesso scritto in questa sede, l’Italia ha delle ottime percentuali di riciclo e di raccolta differenziata, ma spesso si perde nell’ultimo passaggio. I dati ci dicono che viene ancora fatto un uso troppo elevato della discarica – che dovrebbe raggiungere un massimo del 10% di utilizzo entro il 2030. Quindi perché non utilizzare maggiormente la termovalorizzazione (produzione di energia dalla combustione dei rifiuti)?
Anche in questo caso la ricerca e la tecnologia ci vengono incontro: ormai sono diversi gli studi che affermano quanto siano largamente meno inquinanti i termovalorizzatori rispetto alle attività di riscaldamento o di trasporto. Si risolverebbe inoltre il problema delle discariche che hanno oltretutto un impatto ambientale decisamente maggiore e si potrebbe produrre una piccola parte di energia di cui, come visto, l’Italia ha decisamente bisogno.
La transizione ecologia ha bisogno di tempo per compiersi e sicuramente l’Italia avrà sempre bisogno di acquistare energia da Paesi terzi, ma una progettazione più lungimirante ci avrebbe se non altro reso meno dipendenti.
Non ci resta che chiederci quanto l’attuale situazione avrebbe inciso sulle nostre bollette se avessimo adottato politiche ambientali differenti.
Impareremo la lezione?