28 Novembre 2018
Mai come in questo ultimo periodo gli impianti di trattamento rifiuti stanno bruciando. Ma cosa sta succedendo? Sono eventi collegati? Perché i media si interessano dell’incidente per pochi giorni e poi tutto torna a tacere?
Sì, avete letto bene: 343 sono gli incendi dal 2014 ad oggi (fonte: Il Sole 24 Ore).
In particolare:
Gli ultimi in ordine cronologico sono gli incendi che hanno colpito, a poche ore di distanze, un deposito di carta a Novate Milanese e uno di plastica a Quarto Oggiaro, entrambi nell’hinterland milanese.
Consultando la mappa fornita dall’Onorevole Mannino, che riporta gli incendi da maggio 2017 fino all’estate 2018, un dato salta subito all’occhio: gli impianti vittime di incendio sono soprattutto al centro nord, mentre al sud il fenomeno si trasforma in incendi di siti abusivi.
Perché questi incendi sono sempre più frequenti? E in particolare, perché negli ultimi anni il fenomeno si è spostato al Nord? Facciamo un passo indietro. Dal 2014, con l’entrata in vigore dell’art. 35 del Decreto “Sblocca Italia” si è liberalizzato il mercato del rifiuto. Il Decreto, infatti, classifica i termovalorizzatori come impianti di recupero energetico R1 e, come tali, non possiedono limiti di bacino, ponendo dunque la possibilità di raccogliere i rifiuti di altre Regioni.
Dunque: i pochi impianti finali presenti in Italia – che si trovano quasi esclusivamente al Nord – sono obbligati dal Decreto a prestare “mutuo soccorso” ai rifiuti extraregionali rispetto agli speciali locali.
Il poco spazio che ne rimanere diventa lo scenario di un mercato al rialzo per poter conferire.
Con questa premessa è facile intuire perché siano gli impianti settentrionali a prendere fuoco. I rifiuti dal 2014 vengono movimentati esclusivamente verso Nord, ingolfano gli inceneritori/termovalorizzatori, bloccano il conferimento agli impianti intermedi locali e gli stessi si riempiono di rifiuti in attesa di trovare spazi per essere smaltiti.
A questa situazione, già di per sé terribile, va aggiunto il recente blocco imposto da Pechino che dal 1° gennaio 2018 ha irrigidito notevolmente i limiti per l’importazione di materiale riciclabile (24 tipi di materiali per l’esattezza), fissando a 0,5% il limite di impurità. Questa decisione rende pressoché impossibile conferire i rifiuti nel gigante asiatico.
Dal 2019 il Governo cinese imporrà duri limiti anche all’importazione di materiali ferrosi: la situazione peggiorerà ulteriormente.
Inutile sottolineare che con la mancanza di spazi per i conferimenti, i prezzi per quei pochi disponibili sono aumentati in maniera esponenziale.
Intendiamoci, noi non vogliamo assolutamente giustificare nessuno: chi sbaglia deve pagare, ma nella situazione attuale è facile fare un passo falso ed avviarsi verso delle soluzioni quantomeno ambigue.
Chi si sta trovando maggiormente in difficoltà? Tutte quelle società che in questo ultimo periodo hanno deciso di non adottare una politica di aggiornamento prezzi, non si sono adeguati agli aumenti adottati da impianti finali e inceneritori, hanno deciso di non sconvolgere la loro linea commerciale per paura di perdere clienti, e adesso si trovano i magazzini pieni di rifiuti da smaltire senza più avere un’uscita conveniente.
Oggi le aziende di trasporto e smaltimento rifiuti si trovano in una situazione paradossale: non poter tutelare i propri clienti.
I prezzi aumentano e gli spazi per i conferimenti sono quasi inesistenti. Questo comporta la saturazione dei magazzini e il ritardo dei servizi a discapito dei clienti. Ormai il problema non è nemmeno di natura economica. La saturazione dei magazzini implica la violazione dei limiti autorizzativi di stoccaggio, in questo modo si rischia, oltre al palese pericolo di incedi/incidenti, anche la chiusura dell’impianto per mezzo degli Enti competenti con sanzioni penali.
Come può un’azienda garantire un servizio efficiente ai propri clienti se queste sono le premesse?
Si è creata la situazione ideale per alimentare un segmento della società che non aspetta altro che sfruttare i punti deboli di un settore così delicato.
I quotidiani di questi giorni ci stanno tenendo costantemente aggiornati su tutti i fatti di cronaca riguardanti gli incendi di rifiuti. La dinamica è abbastanza semplice: uno dei tanti capannoni svuotati da imprese fallite viene acquistato da un/a imprenditore/società fittizi che lo trasformano a tutti gli effetti in una discarica abusiva. Le aziende con i magazzini pieni di rifiuti impossibili da smaltire, trovano finalmente un fornitore adeguato alle loro necessità. Il gioco è fatto: i secondi hanno risparmiato, e i primi hanno acquisito un tesoro.
Il fuoco fa il resto, brucia le prove e ripulisce le coscienze.
È recente cronaca, l’inchiesta del capannone incendiato a Corteolona, nel Pavese. Dietro a quell’“incidente” si nascondeva una rete di traffico illecito di rifiuti dalle dinamiche simili a quelle descritte qualche riga più su.
Come documentato dal Il Sole 24 Ore, quando il capannone è diventato pieno fino all’orlo è arrivata la segnalazione in codice, come confermano le intercettazioni:
“La torta è pronta, ho sparso il liquore in diversi punti, soprattutto al centro. Domani puoi andare a ritirarla”.
Facile capire cosa sia la torta e cosa il liquore.
I media stanno facendo un lavoro certosino sulla ricostruzione degli incendi. Il tema crea molta audience, la gente si appassiona.
In pochi fanno un passo indietro per analizzare il quadro generale. Possibile che tutto dipenda dalle Ecomafie e dalla criminalità? A questa domanda vorremmo far rispondere Jacopo Giliberto, esperto ambientale e giornalista:
“La maggior parte delle aziende di selezione e trattamento degli scarti riciclabili sono assolutamente in regola come autorizzazioni e come impiantistica, e gli impianti e i sistemi antincendio sono tarati per un flusso regolare di materiali infiammabili.
Tanto entra, tanto esce.
Ma il “tappo” in fondo alla filiera fa entrare i materiali, poi non li fa uscire perché nessuno li ritira.
I capannoni si riempiono. I piazzali si ingombrano.
I materiali raccolti dalle raccolte differenziate urbane e dalle aziende sono spesso eterogenei, con frazioni che fermentano o sviluppano vapori infiammabili per i quali non sono dimensionati i sistemi di sicurezza. Basta nulla per scatenare le fiamme, lo scintillare del corto circuito in un quadro elettrico o la reazione chimica tra due rifiuti chimici incompatibili.”
La risposta alla nostra domanda provocatoria è scontata: solo una piccola parte del nostro settore tratta i rifiuti in maniera illegale. Decine di migliaia di aziende hanno autorizzazioni in regola e una gestione del lavoro limpida, con tutti i problemi burocratici che ciò comporta.
Alla luce di ciò, sorge spontaneo chiedersi come mai tutto sia fermo.
I professionisti del settore, che vivono giornalmente il problema, sanno quanto sia necessaria una rete di impianti finali. D’altronde, basterebbe un focus su quelli esistenti per capire che, pur funzionando a pieno regime, non riescono a soddisfare la richiesta.
È un tema effettivamente delicato. Mai come oggi il tema ecologico è sentito, e mai come oggi dilaga la disinformazione.
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.
L’Italia, insieme alla Germania, è il distretto industriale del riciclaggio più importante in Europa.
I dati parlano chiaro, l’Italia è un paese virtuoso per la raccolta differenziata, ma la filiera del riciclo non può avere futuro senza un’adeguata rete di impianti finali.
Ma il mercato è più piccolo dell’offerta e gli impianti di selezione e riciclo si riempiono di carta, plastica, vetro, che nessuno compra, mentre gli impianti sono intasati dall’immondizia generica di città.
I paesi del nord Europa riciclano meno rispetto a noi, ma utilizzano molto di più i termovalorizzatori, i quali, oltre a risolvere il problema dei rifiuti, producono anche energia.
Oggi gli inceneritori in Italia sono 41, la maggior parte dei quali di piccole dimensioni e datati. Questi impianti smaltiscono solo 5 milioni di tonnellate sui 32 milioni di rifiuti urbani prodotti dagli italiani – il 52% viene separato per il riciclo. A questi si sommano i 125 milioni di tonnellate di rifiuti industriali – il 65% viene ricuperato (dati Ispra).
Inoltre i nostri inceneritori, costruiti appunto 20 anni fa, dovevano soddisfare l’esigenza di smaltire altra tipologia di rifiuto rispetto a quella odierna. Oggi la raccolta differenziata ha reso il rifiuto più secco, mentre una volta era umido, dunque due poteri calorifici differenti.
Il Decreto Sblocca-Italia, per far sì che i territori meridionali tornassero a respirare, ha messo un macigno attorno al collo agli impianti settentrionali che non smette di spingerli giù.
Dei 41 inceneritori del nostro paese, ce ne sono ben 13 in Lombardia, 8 in Toscana, 9 in Emilia Romagna, 4 in Veneto e 2 in Friuli. La Sicilia presenta 0 inceneritori, in Campania c’è solo quello di Acerra, la Calabria ha solo quello di Gioia Tauro, ecc.
In realtà, il famigerato Decreto “Sblocca Italia” prevedeva la realizzazione di 8 inceneritori. Ma ad ogni proposta di costruzione, e sottolineiamo proposta non progetto, arriva la ferma opposizione di Regioni, Province, Comuni.
Siccome sarebbero state le singole Regioni a decidere dove costruirli, secondo il Rapporto preliminare del ministero dell’Ambiente non si sarebbe potuto stabilire quanto il Piano avrebbe inciso direttamente sulle componenti ambientali. E dunque, non si sarebbero potuti puntualmente determinare e calcolare gli effetti significativi sull’ambiente, a cominciare dal superamento dei livelli di qualità ambientale.
Purtroppo siamo in un momento storico in cui la ricerca e la scienza vengono messi costantemente in discussione; in cui l’opinione del “tuttologo” ha la stessa valenza ed autorità dell’esperto. E dunque ogni progetto di nuovo impianto di smaltimento trova i comitati “nimby” – acronimo di “not in my back yard” – che si oppongono alla costruzione.
E dunque non si contano i progetti bloccati in questi anni: impianti di trattamento e riciclo dei rifiuti a Viggiano, a Prisciano in Umbria, a Scarlino in provincia di Grosseto, oppure la discarica di Casal Ser Ugo a Padova, l’inceneritore Hera a Coriano in provincia di Forlì. Solo per citarne alcuni.
L’art. 35 dello “Sblocca Italia”, anche se convertito in legge non ha mai superato lo stadio dell’enunciazione del principio.
Sul tema c’è molta disinformazione.
Diverse testate giornalistiche, tra cui La Repubblica, riportano lo studio della Cewep (Confederation of european waste-to-energy plants), citato da Daniele Fortini (già amministratore delegato di Asia, l’azienda della nettezza urbana di Napoli) e Gabriella Corona nel loro libro Rifiuti:
Purtroppo le Amministrazioni non sono lungimiranti e hanno sempre il terrore della tornata elettorale. Mai indispettire i cittadini quando si è sotto elezione: oggi dieci mamme in passeggino fanno molto più rumore di esperti, ricercatori e scienziati.
Inoltre la burocrazia italiana sa sempre come rallentare i lavori. È il caso del cosiddetto “End of waste”, il processo che, concretamente, permette ad un rifiuto di tornare a svolgere un ruolo utile come prodotto.
In Italia il Legislatore non è mai stato chiaro e questo ha fatto sì che nel marzo scorso una sentenza del Consiglio di Stato riuscì a bloccare non solamente l’impianto sperimentale (e studiato in mezzo mondo) che nel Trevisano ricicla i pannolini per bambini ma anche buona parte del sistema del riciclo basato sulle normative europee End of Waste.
Non a caso di recente il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, ha annunciato un intervento per applicare in Italia le corrette regole End of Waste europee.
Per chi volesse approfondire l’argomento, consigliamo di leggere il nostro articolo sul “End of waste”.
In realtà, negli ultimi mesi, alcune associazioni di categoria hanno cominciato a prendere concretamente posizione.
A cominciare da Assorecuperi, branchia di Confcommercio, che già diversi mesi fa denunciò il problema per voce del suo Presidente, Tiziano Brembilla:
“Noi abbiamo accettato la costruzione degli inceneritori, che non sono proprio negozi di confetti, per garantire il servizio locale. Non certo per far fare business a chi gestisce gli inceneritori o per dare servizi alle regioni che continuano a non affrontare il problema e a non adottarsi di impianti per la gestione del rifiuto”.
È notizia di questi giorni, un incontro tra Regione Lombardia, Confcommercio e rappresentanti degli inceneritori per cercare di trovare un accordo sui conferimenti. Per ora nulla di certo se nonché, molto probabilmente, le difficoltà aumenteranno per degli interventi di manutenzione degli impianti, vecchi di 20 anni.
Anche FiseAssoambiente, per mano e bocca del suo nuovo Presidente, Chicco Testa, ha iniziato a schiacciare l’acceleratore in direzione degli inceneritori. Dalle pagine de “La Stampa” ha pubblicato un articolo di dura critica sulla situazione impiantistica italiana. Riportiamo il passaggio saliente del suo scritto:
“La prima criticità riguarda la mancanza di impianti. La transizione verso l’economia circolare cambia la natura ed il tipo di impianti da realizzare, ma non c’è “circular e green economy” senza impianti di riciclaggio, recupero energetico e anche di discarica. Senza impianti il sistema va in crisi, con conseguenze su produttori e cittadini. La carenza o mancanza cronica di impianti invece favorisce le attività illegali e gli smaltimenti abusivi, e genera meccanismi di intermediazione opachi e spesso inefficienti, con un aumento dei costi sui produttori dei rifiuti e sull’economia reale spesso ingiustificati.”
Riportiamo inoltre, l’intervento del succitato Presidente Testa, alla trasmissione “W l’Italia”.
Ma non solo. Anche Girolamo Marchi, Presidente dell’Assocarta ha affermato: “Rischia di fermarsi il riciclo delle cartiere italiane lucchesi per l’incapacità di dare risposte al recupero degli scarti del riciclo”. Andrea Ramonda, Amministratore Delegato di Herambiente: “Sul mercato gli impianti sono strapieni, c’è un tappo in fondo alla filiera”. E ancora, l’Urima – Associazione delle aziende di riciclo di materiali rigenerabili: “Mentre i dati di Ispra evidenziano il costante aumento della produzione di tali rifiuti, le capacità degli impianti di destinazione che devono riceverli si stanno drasticamente riducendo con conseguente esponenziale incremento delle difficoltà da parte delle imprese del nostro settore”.
Stiamo riportando solo le più significative, ma potremmo tranquillamente parlare di “pensiero unanime” delle Associazioni di categoria.
Durante la fiera di settore Ecomondo di Rimini, siamo stati invitati al convegno organizzato dalla società Eco Eridania, azienda leader con all’attivo 7 impianti di smaltimento. L’incontro, dal nome “Italia 2020, rifiuti industriali – rischio default?!” ha visto i rappresentanti dei grandi leader del settore ecologico, tra cui A2A Ambiente, IREN Ambiente, HERA Ambiente, Unirecuperi, Sarpi Industries, l’Ente di analisi ambientale ISPRA e l’associazione di categoria di Confindustria. In rappresentanza del Governo, era presente Alessandro Benvenuto, Presidente della Commissione Ambiente della Camera dei Deputati e l’Assessore per le politiche ambientali Regione Emilia Romagna, Paola Gazzolo; moderatore: Sebastiano Barisoni, giornalista economico e vicedirettore di Radio24.
Interessanti le testimonianze dei professionisti del settore che ogni giorno si scontrano con il problema.
Roberta Recchia di Confindustria ha sottolineato che manca la domanda per l’End of waste e questo crea un vero e proprio blocco economico, favorito dalla mancanza di investimenti, di incentivi governativi e dalla carenza di impianti.
Come proposto da Elena Maggioni di A2A Ambiente, per favorire la costruzione di impianti bisognerebbe finanziare studi, convegni, incontri, ricerche, ecc. per poter informare correttamente il cittadino sugli effettivi miglioramenti e benefici. Coinvolgere Comuni, Università e punti di ricerca, come fece l’Inghilterra quando decise di chiudere le discariche in favore della costruzione dei termovalorizzatori.
Importante la dichiarazione di Alessandro Benvenuto, Presidente della Commissione Ambiente della Camera dei Deputati, il quale conferma la consapevolezza di dover aumentare il numero di impianti. Consapevolezza che purtroppo si scontra con il differente punto di vista del Governo che sull’argomento sembra avere idee contrastanti rispetto a quelle esposte dai professionisti del settore.
Ne è la prova l’ultimo fatto riguardante la “Terra dei fuochi” in Campania e l’accordo sul Protocollo d’Intesa.
In questi giorni è in atto una vera e propria discussione pubblica tra le varie figure di Governo. Pomo della discordia: la “Terra dei Fuochi”.
In più occasioni il Ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, ha sempre lasciato intendere che gli inceneritori/termovalorizzatori non sarebbero stati materia di discussione in Parlamento se non per debellarli dal suolo italiano:
“Si sta lavorando, piuttosto, a una normativa finalizzata alla riduzione della produzione dei rifiuti e all’aumento della differenziata di qualità” continua “Proprio perché la competenza è statale ho dato disposizione agli uffici legislativi affinché sia modificato l’art.35 dello “Sblocca Italia” contro cui tantissimi cittadini e comitati si sono sempre battuti. È arrivato il momento di non puntare più sull’incenerimento ma sulla differenziata di qualità e sull’economia circolare”.
Dall’altro canto il Vice-Premier e Ministro degli Interni, Matteo Salvini, proprio in occasione dell’incontro per lanciare il piano rifiuti, ha dichiarato pubblicamente la volontà di aumentarne il numero:
“Occorre il coraggio di dire che serve un termovalorizzatore per ogni Provincia perché se produci rifiuti li devi smaltire”. E ancora: I rifiuti ovunque nel mondo significano ricchezza, energia e acqua calda. A Copenaghen inaugureranno un inceneritore con una pista da sci e una parete di arrampicata mentre altrove sono musei, se gestiti bene e controllati bene portano più salute e più economia e quindi sicuramente la Lombardia non torna indietro, anzi l’obiettivo è che anche altre regioni italiane vadano avanti. Non voglio un Paese che torna indietro”.
Affermazione forte, ancor di più se detta in Campania, Regione che ha sempre sofferto il problema dei rifiuti e dove la criminalità organizzata ne ha creato un business.
Botta e risposta dunque, con il Ministro Di Maio, anch’egli Vice-Premier, che nega ogni possibile svolta del Governo in quella direzione:
“Quando si viene in Campania e si parla di terra dei fuochi si dovrebbero tener presenti la storia e le difficoltà di questo popolo. La terra dei fuochi è un disastro legato ai rifiuti industriali (provenienti da tutta Italia) non a quelli domestici. Quindi gli inceneritori non c’entrano una beneamata ceppa e tra l’altro non sono nel contratto di Governo”.
Il dibattito a “mezzo social” si è concluso con il “Piano d’azione sulla Terra dei Fuochi”, che prevede:
Dunque accantonata l’ipotesi dei termovalorizzatori.
Questo scambio di vedute pubblico ha fatto sì che si parlasse del tema con i soliti toni sensazionalistici, che di oggettivo non hanno proprio nulla.
Probabilmente l’errore fatto da ogni Governo che volesse intavolare un progetto di questo tipo è stato quello di non partire da una seria azione di informazione nei confronti del cittadino. Informazione che, come tale, deve informare e poi lasciare il posto alla concretezza: procedere nella costruzione di un serio progetto. Dichiarazioni sensazionalistiche possono trasformarsi in un boomerang e svolgere un’azione controproducente.
Anche all’estero i problemi non mancano, ma la situazione è decisamente migliore, o almeno lo è nei Paesi del nord Europa. Perché? Nonostante la crisi sia mondiale (ne parliamo nello specifico qui), diversi Paesi riescono comunque a far fronte al problema grazie alla loro rete funzionante di impianti finali. Mentre in Italia si discute sugli effetti degli inceneritori e dei termovalorizzatori, senza mai arrivare a una presa di posizione, i Paesi nordici riciclano e bruciano senza remore e i Paesi del Sud d’Europa fanno un uso sconsiderato delle discariche.
Secondo i dati forniti da Il Sole 24 Ore, il Nord America predilige la discarica classica (54,3% dei rifiuti) e il riciclo (33,3%), l’Asia meridionale come l’India abusa dell’abbandono a cielo aperto (75%), l’Africa Settentrionale e il Vicino Oriente ricorrono soprattutto all’abbandono all’aperto (52,7%) o in discariche (34%).
L’Europa e l’Asia Centrale che vi fa riferimento (come i Paesi ex Urss) ricorrono in misura equilibrata a tutte le modalità (25,6% abbandono irregolare, 25,9% discarica, 30,7% riciclo e compost, 17,8% incenerimento); l’Africa Nera abbandona la spazzatura (69% e un altro 24% in discariche regolari).
Le Americhe del Sud e Centrale prediligono le discariche (68,5%) ma non è raro l’abbandono (26,8%). L’Asia Orientale e Pacifica è forte nelle discariche (46%) ma anche fa un ricorso generoso all’incenerimento (24% dei rifiuti prodotti).
La situazione è drastica. Non vogliamo fare terrorismo, ma i fatti di questo periodo ne sono la conferma.
Gli incendi degli impianti sono solo la punta dell’iceberg. A monte ci sono magazzini pieni di rifiuti che non hanno vie d’uscita, materiali che non hanno mercato. Le aziende si trovano nella situazione di rifiutare i clienti per paura di non trovare uscite per i rifiuti.
E intanto i prezzi aumentano. Ultimo cronologicamente parlando, il Contributo Ambiente Conai, ossia la tassa sugli imballaggi, che a partire dal 2019 quintuplicherà rispetto al 2008.
Mentre i prezzi di conferimento salgono alle stelle, gli spazi diminuiscono sempre di più. Ormai non si cerca più il fornitore con il prezzo più competitivo, ma quello che può ritirare il materiale a qualunque prezzo.
Il futuro è molto incerto.
D’altronde si parla in continuazione di raccolta differenziata, economia circolare, green economy, ecc. ma se poi la richiesta di questi materiali è minore rispetto all’offerta, allora che si fa?
L’economia circolare va sviluppata e favorita, ma ci sarà sempre una parte di rifiuto da conferire, anche perché – stando ai dati ISPRA – continuiamo a produrre e a consumare a ritmi elevati. Quindi alla fine di tutto ci deve essere un luogo presidiato in cui conferire i rifiuti prodotti.
Come sottolineato recentemente da Lucia Leonessi, Direttrice generale della Cisambiente: “Gli impianti di smaltimento sarebbero anche centro di produzione di energia sana e pulita, contrariamente al rogo”.
Quando si inizierà a capirlo?